IL DECALOGO DELLA COMUNICAZIONE AMBIENTALE | #5 IL DIFFICILE È FARLA SEMPLICE

 

Liberare il linguaggio da tecnicismi, acronimi e codici per addetti ai lavori: solo così sarà possibile far crescere empatia, vicinanza e motivazione. Sono queste le condizioni che possono indurre dei cambiamenti nei comportamenti dei singoli e di conseguenza della collettività. Il campo della sostenibilità e quello della comunicazione ambientale sono particolarmente zeppi di acronimi: dagli ESG (i fattori ambientali, sociali e di governance) agli SDGs (gli obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030), dagli standard GRI (la Global Reporting Initiative che sta alla base della rendicontazione
sostenibile) agli RSU (i rifiuti solidi urbani), passando per il Nimby (la sindrome “Non nel mio giardino” che blocca qualsiasi progetto di sviluppo sul territorio) e planando sulla VIA (la Valutazione d’Impatto Ambientale). Se non si ha dimestichezza con questo vocabolario, si rischia di sentirsi come degli alieni appena atterrati sulla Terra. Questo solo per quanto riguarda le sigle. Ad accompagnare il tutto ci sono termini ed espressioni scientifiche e settoriali: gas climalteranti, matrice di materialità, impronta carbonica, mitigazione e così via.

 

L’effetto, per chi non conosce la materia, è straniante, quando non frustrante e respingente.

 

Comunicare i temi ambientali abusando di questo tipo di terminologia è inefficace per due motivi: da una parte, ostacola la comprensione di chi non è un addetto ai lavori[1] (cioè la maggior parte delle persone), dall’altra non coinvolge le persone e le allontana sempre di più, suscitando un misto di fastidio, insoddisfazione, noia. Per quanto riguarda il vocabolario che si sceglie, quindi, il consiglio è quello di usare solo i tecnicismi specifici, sciogliendoli e spiegandoli, rinunciando invece a quelli che il linguista Luca Serianni chiama tecnicismi collaterali, ossia quelle espressioni tipiche di un ambito settoriale che non sono legate a necessità comunicative bensì all’occasione di usare un registro più elevato.

 

Insomma, perché dire SDG se si può dire obiettivo sostenibile?

 

Questa tentazione, il fascino pericoloso del radical chic, va combattuta con convinzione. Attenzione, però: semplificare non significa banalizzare. Come trovare l’equilibrio? Rendendo più accessibili i contenuti scientificamente fondati, riconducendo questi temi, che sembrano distanti e difficili, a una dimensione più vicina al nostro interlocutore. Quindi, invece di dire quanti metri cubi di acqua si risparmiano con un prodotto o una pratica sostenibile, proviamo a spiegare quante piscine olimpioniche si potrebbero riempire con la stessa quantità di liquido. Dall’astratto al concreto in un attimo.

[1] Per capire quanto incide la terminologia sulla comprensione delle tematiche climatiche: Bruine de Bruin, W., Rabinovich, L., Weber, K. et al. Public understanding of climate change terminology. Climatic Change 167, 37 (2021). https://doi.org/10.1007/s10584-021-03183-0

A cura di Sergio Vazzoler con la collaborazione di Micol Burighel 

GLI ALTRI CAPITOLI DEL DECALOGO DELLA COMUNICAZIONE AMBIENTALE

 #1 Se non parli ti cancello

#2 Le tre C sul comò: complessità, contraddizioni, conflitto

#3 A buon comunicatore molte domande

#4 Trasparenza is the new black

#5 Il difficile è farla semplice

#6 Lavami ma senza bagnarmi

#7 Ricordati che NON devi morire

#8 Insieme a te non ci sto più

#9 Un hashtag non fa primavera

#10 Oltre alla testa c’è di più

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